QUALCOSA SU DI ME
Sono Maria Rosa Isnenghi, giornalista, co-fondatore del Gruppo Editoriale TV7, ma anche moglie e compagna di vita di Ermanno Chasen.
Vi racconto la storia di mio marito Ermanno, compagno di vita, uomo incredibile, generoso ed appassionato.
ERMANNO ED IL PERIODO UNIVERSITARIO
Ho conosciuto Ermanno nel 1965, quando avevo 22 anni e lui ne aveva 24. Abitavo al Lido di Venezia e venivo a Padova tutti giorni per frequentare Lettere all’Università.
Un giorno mi trovavo al Bò nell’aula riservata alle ragazze, il cosiddetto gineceo, in un momento di pausa, quando una barba scura su un viso lungo e magro inforcato da occhiali, si affacciava alla finestra. Ermanno mi sorrideva, mi adocchiava e mi chiedeva di uscire con un gesto gentile ma deciso. Io stavo studiando storia medioevale e in effetti ero un po’ annoiata, così quel diversivo giunse a fagiolo.
Uscii e… cominciò la nostra storia, la nostra vita insieme. Da allora fummo inseparabili. Ogni volta che venivo a Padova, “casualmente” lo trovavo sulla mia strada e se non avveniva, piegavo io il “caso” a nostro favore. Conoscevo perfettamente dove studiava e dove incontrava gli amici: da Marietto al Bò, al Pedrocchi e successivamente ai Vini Veronesi.
Ermanno studiava Medicina, come il padre Wolf prima di lui, e spesso lavorava come interno a Patologia Generale. Amava la ricerca e il laboratorio e quando vi entrava perdeva il senso del tempo, tra topini bianchi e cavie effettuava ricerche sul muscolo, inventando tecniche di terapia del dolore per non farli soffrire.
Era ricerca, ma non solo scientifica, perché Ermanno si inventava attrezzature altamente performanti per migliorare il lavoro in laboratorio.
Ermanno, perfezionista qual è sempre stato, attraverso la ricerca e la tecnica cercava sempre il migliore dei risultati, in laboratorio come nella vita. Perché Ermanno è così… ha la mentalità scientifica del ricercatore in ogni cosa che fa. Esplora e valuta ogni opportunità per conseguire il risultato migliore, per raggiungere il suo obiettivo.
Questo suo modo unico di vedere il mondo mi ha sempre affascinato e coinvolto. Per me Ermanno ha sempre visto “oltre le cose”, ha sempre avuto la lungimiranza di immaginare opportunità e soluzioni dove altri si sarebbero fermati. Questo modo di affrontare la vita lo ha sempre contraddistinto in tutto quello che ha fatto e lo ha spinto ad esplorare percorsi unici e per me, senza di lui, inimmaginabili.
Per Ermanno tutto è possibile ed io ho amato da subito questo suo approccio alla vita ed ho iniziato a seguirlo e supportarlo, lasciandomi coinvolgere ed affascinare.
Fu così che misi il naso anche io in laboratorio, facendogli da spalla, addormentando i topini, controllandone il sonno, sistemando i vetrini dei preparati e molto altro. E questo fu solo l’inizio perché eravamo ormai inseparabili.
Erano gli anni ’60, gli anni in cui in Italia come nel mondo il movimento studentesco si faceva strada, gli anni della goliardia che sbeffeggiava il potere con ironia, la goliardia che non risparmiava critiche, sempre sul filo tra il lecito e l’illecito. Erano gli anni in cui, alla festa delle matricole, la città volutamente si fermava e dava spazio alle “follie universitarie”, non solo accettandole filosoficamente, ma anche valorizzandole, perché erano la spinta vitale della cultura. E la città ne andava fiera.
Quel senso critico goliardico ad Ermanno calzava a pennello…e fu così che entrò a far parte dell’orchestra universitaria, la Polifonica Vitaliano Lenguazza, suonando i timpani.
Musica suonata con entusiasmo, canti ammiccanti e irridenti, che riuscivano a coinvolgere persone ed istituzioni per veicolare idee innovative e controcorrente che all’epoca, a parole, sarebbero stati messe all’indice.
VIDEO DOCUMENTARI E FOTOGRAFIA
Ermanno era appassionato dalla fotografia e dal mondo subacqueo, e anche in questo lavorammo insieme trasmettendomi la stessa passione. Così lui, che era già istruttore federale, divenne presidente del Club Sommozzatori Italiano ed io, preso il brevetto da sommozzatore, divenni istruttrice di nuoto.
Cominciammo quindi a produrre documentari di viaggio, conciliando i nostri grandi amori: la fotografia, le immersioni, l’archeologia e non ultimo la scrittura.
Inizialmente documentavamo ciò che vedevamo, per il piacere di condividere con altri il frutto dei nostri viaggi, ben presto divenne una professione. Scrivevamo per riviste specializzate e producevamo video documentari con cinepresa, prima in S8 poi in 16 mm.
Provo a raccontarvi alcune delle avventure di Ermanno per farvi capire l’intraprendenza che animava ogni sua impresa, che furono l’origine della sua carriera nel mondo della comunicazione.
1. Ermanno Chasen - La Turchia e la penisola di Cnido
Nel 1970 con un gruppo di amici e Tom (il nostro mitico pastore tedesco, un cane in grado di seguirci ovunque) organizzammo una spedizione archeologico-subacquea in Turchia, nelle acque della penisola di Cnido.
Ermanno era riuscito a farsi accreditare dall’Ambasciata Italiana presso il Consolato turco e avevamo così ottenuto i permessi di immersione e ripresa nelle acque locali.
La Turchia, che conoscevamo già molto bene, non era un paese facile da attraversare e all’epoca non era certo un paese sicuro… soprattutto nelle condizioni spartane ed avventurose in cui amavamo viaggiare.
Equipaggiati di tutto quanto potesse servire eravamo attrezzati per percorsi fuori strada, prevedendo di non poter fare rifornimenti per giorni e per centinaia di chilometri.
Eravamo pronti per il lavoro: tende, bombole, compressore per la ricarica, attrezzatura subacquea, cineprese, macchine fotografiche con chilometri di pellicola e centinaia di rullini ma anche riserve alimentari per sopravvivere anche nei posti più sperduti.
Ricordo come fosse oggi l’entusiasmo e la determinazione di Ermanno: dovevamo tornare a casa con un documentario unico, che soddisfacesse Ambasciata, Consolato e sponsor che avevano creduto nel progetto.
Avevamo allestito il campo in una baia deserta a 10 metri dal mare. Lo chiamavamo campo Skorpion, a causa degli scorpioni che ci facevano compagnia. Quattro tende canadesi erano il nostro tetto, in mezzo alle quali avevamo costruito un lungo tavolo che serviva da punto di ritrovo la sera per cenare e predisporre la giornata di lavoro successiva ma anche come punto di appoggio per effettuare le necessarie manutenzioni alle attrezzature e rilassarci in compagnia, dopo una giornata di mare e sole.
Furono trenta giorni intensi in cui potemmo riprendere i resti sommersi dei due porti di Cnido, attraverso cui erano transitati i commerci della Grecia peloponnesiaca e da cui erano partiti i (futuri) coloni della Magna Grecia.
Ma le immersioni non avevano il solo scopo della ricerca; servivano anche a procurare le proteine quotidiane necessarie. E così a turno, si andava a pescare il pesce per la cena del gruppo. Chi restava a terra preparava il fuoco per arrostire il bottino, che non mancava mai; all’epoca il mare, ricco e generoso, l’acqua trasparente come vetro, non ci negava mai il suo sostegno.
Al rientro ci mettemmo subito al lavoro per sviluppare, scrivere i testi, montare i filmati, insonorizzare con colonna sonora italiana e internazionale il documentario. Nacque così il documentario “Egeo 70 sub”, che fu immediatamente apprezzato.
2. Ermanno Chasen - Le Azzorre, il Portogallo e l'oceano Atlantico
Due anni dopo fu la volta di Spagna, Portogallo, isole Azzorre e poi ritorno attraverso Marocco, Algeria, Tunisia.
Nei nostri viaggi spesso eravamo Ermanno e io da soli, con Tom naturalmente, che si sobbarcava con pazienza estrema viaggi in macchina, aereo, nave.
Fu così che approcciammo l’oceano che era indubbiamente più complesso da documentare del nostro tranquillo Mediterraneo. Non si trattava più di riprendere reperti archeologici, ma gli abitanti del vasto oceano: gli squali. Ermanno, anche in questo caso, era arrivato attrezzato: cineprese, macchine fotografiche, mute, bombole ma anche fucili e arpioni a difesa da potenziali aggressioni da parte di squali di grandi dimensioni appunto.
All’epoca avevo dovuto smettere di immergermi a causa di una malformazione del setto nasale che mi impediva la corretta compensazione e che mi aveva già procurato una brutta labirintite e una parziale perdita di udito.
Per questo mentre lui si dedicava alle riprese subacquee, io lavoravo in superficie gestendo l’attrezzatura e l’imbarcazione, anche per ore, attendendo con ansia il riaffiorare delle bolle d’aria delle sue bombole.
Nell’oceano aperto gli squali raggiungevano tranquillamente i 5 metri ed Ermanno non si tirava indietro di fronte a niente pur di documentarne il comportamento. Fu un’esperienza unica. Raccogliemmo una quantità enorme di fotografie e filmati indispensabili per raccontare questo nostro primo approccio all’oceano … che ovviamente fu solo l’inizio. Questi incontri ravvicinati con gli squali stimolarono in Ermanno il desiderio di documentare ulteriormente e con l’adeguata attrezzatura, i comportamenti di questi incredibili esseri marini.
Ermanno voleva scendere più in profondità, protetto da gabbie che permettessero, in sicurezza, di studiarne abitudini e interazioni tra esemplari, con riprese sempre più ravvicinate.
Al ritorno, una volta rientrati sul continente in Portogallo, pensammo di effettuare una deviazione e di risalire verso l’Italia attraverso la costa africana, percorrendo Marocco, Algeria e Tunisia con il nostro piccolo furgone, un 850 Fiat modello famigliare, trasformato a camper.
Con il Pampero, questo era il nome del mini-pseudo-camper, ci fermavamo per la notte in qualsiasi posto attirasse la nostra curiosità. Non avevamo bisogno di piazzole di sosta attrezzate, di acqua, luce o gas.
Eravamo autonomi in tutto: un fornello da campeggio, una tanica d’acqua sul tetto del Pampero per fare una doccia sotto il sole quando ci fermavamo, un piccolo frigorifero, torce e lampade a batteria, ma soprattutto spirito di adattamento e capacità di godere della libertà di vivere le giornate come venivano. Con noi, sempre, Tom, nostro protettore fedele e insostituibile.
3. Ermanno Chasen – Ritorno alle isole Azzorre ...con squali!
Piccola pausa…ma non troppo. Nell’estate del 73 avevamo preso un nuovo impegno: in agosto venne alla luce il nostro primo figlio, Alex.
Dopo una pausa di qualche mese, cominciammo a prepararci per l’estate successiva, modificando però il contesto dei partecipanti. Ormai non c’era più soltanto Tom a seguirci, in estate ci avrebbe accompagnato anche Alex un bimbo di 11 mesi ed ovviamente, bisognava tenerne conto.
I preparativi furono lunghi e difficoltosi, dovevamo costruire le gabbie e dovevano essere smontabili e trasportabili in aereo insieme a cineprese e attrezzatura di ogni genere. Nulla andava lasciato al caso.
Destinazione, di nuovo il cuore dell’oceano Atlantico, Ilhas dos Acores (isole Azzorre, Portogallo).
Si aggregarono quattro compagni di viaggio e di avventura, gli stessi con cui avevamo già documentato la Turchia.
Io però ero nuovamente fuori gioco in quanto alle prese con la mia seconda avventura di mamma. Alla fine di luglio 1974 infatti, quando eravamo ormai pronti per partire, ero al 6° mese di gravidanza con Alex che ormai aveva un anno e ancora non camminava.
Ma niente ci fermava quando Ermanno e io eravamo insieme e fu così che partimmo per le Azzorre con 4 amici, Alex ed ovviamente il nostro pastore tedesco Tom che mai ci abbandonava e noi mai avremmo pensato di lasciare a casa.
A pensarci bene fu una spedizione decisamente avventurosa, che in quanto mamma vissi un po’ a latere. I racconti che gli uomini, ed Ermanno in particolare, facevano quando tornavano a casa la sera, parlavano di distese d’acqua sconfinate, di onda lunga oceanica, di baleniere e balene avvistate oltre ovviamente ai pescecani osservati e filmati dietro la protezione delle gabbie anti-squalo.
Noi donne, eravamo in tre, il piccolo Alex, ormai considerato un po’ figlio di tutto il gruppo, e Tom aspettavamo il loro rientro per condividere il loro entusiasmo e… la loro stanchezza.
La mia però non era da meno. Alex, ogni giorno che passava, si faceva più intraprendente, la lunga spiaggia dell’isola di S. Maria lo attraeva senza sosta e anche Claudia, questo sarebbe stato il nome della bimba in arrivo, dentro di me cresceva e si agitava impaziente, come se volesse partecipare di persona a tante esperienze elettrizzanti.
Le riprese ovviamente, non riguardarono solo gli squali. Girammo le Azzorre da un isola all’altra, un po’ utilizzando aerei locali, un po’ i traghetti che collegavano le isole più vicine, documentando paesaggi a volte aridi e brulli, a volte lussureggianti di colori e fiori.
Ermanno, con Alex appollaiato sulle spalle attaccato al manico della cinepresa, filmava instancabile territori deserti e solitari o prodighi di vita e natura, sorrisi smaglianti, occhi curiosi, scuri e profondi.
Fu un viaggio indimenticabile e tornammo a casa agli inizi di settembre. Dopo più di un mese di vita vagabonda a contatto con un’umanità semplice e generosa, la nostra mente ne usciva frastornata, bisognava riportare i piedi per terra, convincere cuore e cervello a ritornare alla nostra realtà e guardare con occhio critico il materiale filmato, le fotografie impresse nella pellicola e trasformare il tutto in documentari.
Una volta in Italia ci mettemmo subito al lavoro, tagliando e cucendo, scrivendo e cancellando, con immaginazione e malinconia. Cercavamo immagini, pensieri e parole che offrissero, a chi tutto ciò non aveva visto, l’impressione più fedele, realistica e accattivante di quel paradiso che erano le Azzorre e l’oceano Atlantico.
Ne nacque un documentario: “Le isole Azzorre”, un mondo lontano ed incontaminato, forse preservato proprio dall’oceano che lo custodiva.
4. Ermanno Chasen e Tony Valeruz – Discesa con gli sci dalla parete Est del Cervino
All’ottavo mese di gravidanza nacque Claudia, battendo sul tempo qualsiasi pronostico, forse spinta da quell’adrenalina che le avevo indirettamente trasmesso. Ermanno era entusiasta di questo ampliamento repentino del nucleo familiare e ne ricavò nuovi stimoli per elaborare nuove avventure. Questa volta però, con due bambini e un cane, non potevo proprio seguirlo; assunsi nuovamente il ruolo di spalla, come ai tempi in cui lo accompagnavo ai laboratori di patologia e vegliavo sul sonno dei suoi topini bianchi.
Tra settembre e ottobre del 74, Ermanno cominciò a organizzare un’impresa senza precedenti, il documentario “Tony Valeruz, discesa con gli sci dalla parete est del Cervino”.
Era venuto a sapere che Tony Valeruz, un giovane carabiniere nato e vissuto sulle montagne trentine, effettuava discese fantastiche e spericolate con gli sci. In breve lo raggiunse, lo conobbe e lo convinse a realizzare l’impresa impossibile: scendere con gli sci dalla parete est del monte Cervino, una parete di 4.478 metri fino ad allora inviolata.
Ermanno avrebbe gestito tutto e ripreso tutto, dalla cima al fondo della montagna, dai preparativi atletici e organizzativi fino all’evento finale, dai sopralluoghi in quota fino alla scelta delle attrezzature.
Tutto doveva essere calcolato e previsto al millesimo. La montagna, come l’oceano, richiedono rispetto e non vanno mai sottovalutati. Ogni più piccola dimenticanza o trascuratezza possono essere fatali, non solo per chi compie l’impresa, ma anche per chi la vuole documentare. Ne ero pienamente consapevole, ma sapevo anche che Ermanno non avrebbe lasciato nulla al caso, né per la sua sicurezza né per quella di tutti i partecipanti.
Fu così che trascorsero mesi di minuziosi preparativi.
Bisognava prima di tutto pensare alla preparazione atletica di Tony Valeruz, che non si apprestava a fare una semplice discesa sciistica, cosa che per lui non avrebbe certo costituito un problema. Doveva acquisire muscolatura adatta a superare pendenze, neve fresca, ghiaccio, terreno sconnesso e roccioso, ma anche determinazione, consapevolezza, capacità di concentrazione e coraggio per affrontare il pericolo che quest’impresa richiedeva.
Per questo Ermanno gli impose di prepararsi sciando su erba e ghiaione, superando con salti incredibili gli ostacoli più imprevisti. Nel frattempo Ermanno si preparava alle riprese che non potevano essere da meno e avrebbero seguito la discesa di Valeruz in ogni suo passo.
Ermanno aveva ingaggiato un elicottero che, volando in quota sopra il Cervino, avrebbe dovuto lasciare Valeruz sulla cresta innevata del Cervino. Ermanno, dall’elicottero, avrebbe effettuato le riprese all’epoca ancora con cinepresa ed in pellicola.
Fu un’impresa che anche il tempo meteorologico aveva provato ad osteggiare, costringendoli spesso a rinviarne la partenza in attesa di condizioni più favorevoli.
Fu una mattina all’alba che l’impresa ebbe inizio.
Ermanno aveva trascorso giorni alla base aspettando che il vento smettesse di soffiare. Ormai stava arrivando l’inverno e avrebbe costretto Ermanno e Valeruz a posticipare l’impresa di un anno. Impensabile per loro.
Decisero di provare un’ultima volta.
Accadde tutto in pochi pochi istanti. Il vento era forte e il pilota non poteva mantenersi fermo, in quota sopra la cima del Cervino, rischiava di perdere il controllo del velivolo. Furono istanti in cui dovettero decidere in fretta senza il minimo errore: era a rischio non solo l’impresa ma la loro stessa vita. E ne erano consapevoli.
Tony Valeruz si lanciò nel vuoto dall’elicottero e perse il controllo. Si temette il peggio, perché scivolò lungo una delle due pareti del Cervino. Riuscì ad arrestare la caduta verso lo strapiombo e fu così che si rialzò e si salvò la vita.
Ermanno, che non era da meno, per poterlo filmare senza interposizione di ostacoli, era uscito dall’elicottero sedendosi sul pattino esterno del velivolo ad oltre 4.450 metri di altezza, senza guanti e senza imbragatura.
L’impresa era appena iniziata ed entrambi avevano già rischiato la vita, ma niente li avrebbe fermati e l’obiettivo era ambizioso.
Ermanno è sempre stato così nelle sue avventure come nella vita. Non esistono limiti per lui, solo soluzioni da scovare.
Questa determinazione li ha guidati in tutta l’impresa. Valeruz giunse alla base del monte Cervino in poco più di venti minuti. Le postazioni di ripresa, dislocate lungo tutta la discesa, filmarono Valeruz in ogni istante. Tutta la discesa era stata così documentata. Fu un’impresa memorabile che passò alla storia.
Dopo tanti mesi di lavoro e di aspettative il risultato emozionò tutti. Il documentario fu un successo, venne diffuso a livello internazionale e premiato al Festival di Porto Rose. Anche recentemente venne replicato dalla televisione di stato giapponese quale documento storico.
IL GRINGO, LA BARCA A VELA
Un altro elemento importante della nostra famiglia è stato il GRINGO, una barca a vela a chiglia piatta, con deriva mobile, di 14 metri.
Ermanno l’aveva fatta adattare alle nostre esigenze: due cuccette a prua per Alex e Claudia, basse…. a misura di bambino, a cui loro potevano accedere entrando e uscendo da un boccaporto posto sul ponte, due cuccette costruite ai lati della deriva per noi e, a seguire, un fornello e un lavandino. Un piccolo bagno vicino al boccaporto d’ingresso completava l’arredamento. C’era tutto.
Dietro, uscendo, uno spazioso pozzetto, dove stavamo tutti e 5 quando eravamo in navigazione: papà, mamma, Alex, Claudia e Tom.
Abbiamo fatto più di qualche estate in barca; i bambini godevano di questa vita libera. Pur non sapendo ancora nuotare, entravano in acqua in alto mare, indossando i bracciali, si avvicinavano ai delfini, l’acqua lungo le coste dalmate era azzurra e trasparente e poi, una volta in porto, era facile familiarizzare con i vicini di barca e condividere le giornate quando il tempo non consigliava l’uscita.
Indimenticabile è stato un rientro, dopo una traversata da Capodistria, nel bacino di Venezia alla fine di agosto. A motore spento, con le vele spiegate, abbiamo fatto il nostro ingresso scivolando lentamente sui riflessi dell’acqua, davanti a San Marco, tra vaporetti e motonavi, siamo poi entrati nel canale della Giudecca, passando sotto le alte fiancate delle navi passeggeri ancorate al molo e girato poi per tornare indietro sfilando davanti all’isola di San Giorgio. Le motonavi e i traghetti si fermavano, tutto ciò che era a motore rallentava lasciando libero il passaggio a questa barca a vela; regola aurea. I turisti sui mezzi pubblici, fotografavano questo quadretto famigliare sui generis e mentre Alex faceva pipì fuoribordo, noi ci godevamo come da un palcoscenico, la scena.
GLI INIZI DELL'ATTIVITÀ GIORNALISTICA
Mentre tutto ciò avveniva, gli anni 70 erano fucina di molti altri accadimenti. Molti drammi politici nascevano o si sviluppavano a Padova, trovandovi l’humus adatto.
Le proteste studentesche del neonato Movimento avevano aperto la strada del rinnovamento, in molte università italiane. Il “fermento” studentesco patavino non era salito alla ribalta nazionale perché coperto, nella memoria, dai fatti che sfociarono nella strage di Piazza Fontana a Milano nel ’69, opera di un gruppo eversivo di estrema destra, costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo.
Potere Operaio, Toni Negri e il 7 aprile, Freda e Ventura, le bombe e gli omicidi degli anni ’70, furono tutti gli uragani che in quegli anni attraversarono Padova.
Ermanno, che intanto aveva iniziato una collaborazione giornalistica con Veneto Sette, un settimanale di informazione e di cronaca, decise di non guardare dall’altra parte e cominciò ad indagare.
Incontrò Aldo Fais, il magistrato che si occupò dell’inchiesta sulla Rosa dei Venti, l’organizzazione golpista di estrema destra, parlò con Pietro Calogero, il PM che organizzò il primo blitz contro Autonomia Operaia, scoprì la libreria a Padova dove si vendevano i libri sui proclami nazisti a cui aveva attinto Freda.
Tutto questo lavoro veniva poi elaborato in articoli che uscivano settimanalmente su Veneto Sette, corredati da fotografie che erano la testimonianza di quanto andava toccando con mano.
To be continued…
Maria Rosa Isnenghi
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